
“In tempi antichi ci abbandonammo alla mitologia, e vedevamo gli Dei ovunque. Parlavamo con loro faccia a faccia…
Anche oggi la nostra gente di campagna parla con i morti e con alcuni che forse non sono mai morti così come intendiamo la morte;
e perfino la nostra gente istruita passa, non senza grande difficoltà, nella condizione di quiete che è la condizione della visione.”
— William Butler Yeats
In tempi antichi nel territorio mitopoetico celtico, la nebbia era considerata sacra. Molto si dice nel folklore riguardo passaggi attraverso le nebbie, aperture di portali e sentieri oltre le nebbie, come Marion Zimmer Bradley ci racconta in toni romanzati ne Le nebbie di Avalon. Può capitare – come è capitato a me un mattino attorno all’alba agli inizi di febbraio – che la nebbia un giorno ci attiri a sé con il suo mistico fascino e ci inviti a raggiungerla, a contemplarla e camminarci attraverso, a sognare nel suo abbraccio. I Cymry, i Celti del Galles, direbbero che potremmo essere stati consumati dallo spirito di hiraeth, il desiderio di qualcosa che la nostra anima aveva conosciuto una volta, tanto tempo fa.
Nel suo libro The Mist-Filled Path, Frank MacEowen ci invita a considerare che varcare la soglia delle nebbie significa imparare a danzare con il lato trickster dell’esistenza, che cospira qualche volta attraverso gli spiriti, altre attraverso le forze della natura, i sogni, le sincronicità. Muoversi quindi verso l’ignoto, oltre le proprie zone di comfort e contattare le nostre più profonde ferite. Un vecchio assioma terapeutico della psicologia della Gestalt, che si trova anche al cuore dello sciamanesimo e del misticismo contemplativo in tutto il mondo, suggerisce che la guarigione di una ferita deve venire dal sangue della ferita stessa. In altre parole, la guarigione di una ferita emotiva o psico-spirituale avviene precisamente entrando nel suo terreno, e non evitandolo. In questo modo, guarire il nostro esilio dal mondo interiore avviene entrando in quel mondo alla ricerca della forza vitale di guarigione di cui abbiamo bisogno.
La nebbia in effetti può essere davvero un portale, ma cosa c’è oltre? È il velo sottile che ci divide dall’altro mondo, la possibilità di incontrare nuovi regni. Che cosa c’è oltre? Se pensiamo che qualcosa ci divida da un “oltre”, è perché fondamentalmente ci sentiamo esiliati, e l’esilio è lo stato di coscienza in cui l’uomo occidentale vive costantemente. Il senso di separazione dal tutto è un fondamento del pensiero occidentale: ogni cosa è incapsulata e inscatolata, in una cellula, in un sistema, in un concetto, in un pensiero; ogni cosa è organizzata e segue una struttura specifica, determinata, che può essere misurata empiricamente, valutata, standardizzata, affinché possa essere riprodotta secondo una costante meccanica. Questo concetto, questa visione delle cose, alla lunga può atrofizzare il nostro sguardo, identificandoci fortemente con un empirismo cognitivista, dove rischiamo di esiliare noi stessi dal grande Tutto, come viene chiamato nelle grandi scuole buddhiste, dalla coscienza cosmica e oceanica di cui siamo parte.
Immergersi nella coscienza cosmica significa abbandonarsi ai mari dell’amore. Possiamo immaginare di entrarci dolcemente senza alcun freno o di tuffarci nelle sue acque di getto. Una memoria antica che tutti noi abbiamo provato, simile alla percezione di quando siamo stati un feto in gestazione sicura nell’utero della madre, nella matrice eterna del divenire. Quando ci immergiamo in una coscienza cosmica, ci rendiamo conto che siamo parte di un tutto, ma per fare questo bisogna dissolvere la mente egoica. Esattamente come il torrente si immette nell’oceano e ritorna a casa. Come il fiume e i suoi affluenti sfociano con un estuario nel mare, anche noi prima o poi sfoceremo nei mari dell’esistenza, nel grande oceano onnicomprensivo. Tutto ciò accade nella profondità di un respiro consapevole. Diversamente, parti di noi potrebbero sentirsi esiliate dal Tutto e ciò che è importante fare è muoverci invece nella direzione di un sentimento d’appartenenza alla Natura, al Cosmo, alla Terra e a tutte le sue forme di vita. Muoversi coscientemente da uno stato di separazione a uno di unione.

Per fare questo abbiamo bisogno di imparare ad andare oltre le nebbie, varcare la Soglia e conoscere, esperire gli altri mondi, poiché solo dal tempo del sogno – il dreamtime come lo chiamano gli aborigeni australiani – da cui ci siamo separati possiamo attingere alla conoscenza del grande Tutto, ai grandi registri cosmici che conservano la memoria dell’esistenza e dei nostri antenati. In quel varco attraverso le nebbie possiamo accedere a un’infinità di programmi possibili di conoscenza, che nessun corso e nessun metro di misura possono eguagliare. È possibile che gli antichi druidi e veggenti dei celti imparassero a visionare oltre le nebbie per accedere a una conoscenza invisibile ai più, a uno sguardo divinatorio che riguarda la capacità di conoscere con la “c” maiuscola; una conoscenza che perdura e che raffinata può divenire saggezza. Una conoscenza che arriva al cuore delle cose per portarci al centro del cuore stesso, là dove siamo tutti diretti.
I miti che trattano di regni oltre le nebbie ci parlano di Avalon e di re Artù, descritto da Tom Cowan ne Il Fuoco nella Testa, come un re sciamano o mago, capace di varcare le soglie degli altri mondi e tornare alla grande Terra d’Estate nel regno avaloniano. Cosa ci separa da queste terre? Forse solo un soffio di vento? Il tendere l’orecchio al fruscio delle foglie, il prendere per mano qualcuno di caro, qualcuno che amiamo? Ascoltare la voce degli antenati, degli dèi? Cosa ci separa realmente dal grande Tutto? Handsome Lake, un leader religioso nativo Seneca del popolo Irochese, disse che la dimensione che separa i vivi dai morti è esattamente tanto ampia quanto il “filo di una foglia d’acero; i veli sono sottili, resta a noi varcarli con coscienza e le pratiche mistiche dei sognatori possono condurci verso queste strade.
E così ci rimettiamo in cammino…
al prossimo viaggio…
Alberto Fragasso