E se perdessi la tua identità? E se perdessi il tuo ruolo, che cosa accadrebbe? Quale catastrofe? Quale disastro? O forse quale sicurezza, nuova bellezza, o nuovo cammino si dispiegherebbe di fronte a te?

Non sappiamo mai davvero che cosa la vita ci riservi e crediamo che sia tutto in un certo senso prestabilito; questo perché la nostra mente si cristallizza in ruoli, ci invita a indossare maschere e a indossarle quotidianamente per percepirci qualcuno, e dunque per possedere un’identità.

Nell’esperienza sciamanica, l’arte di perdere l’identità è parte di un processo profondo, utile non solo alla risoluzione di problemi individuali ma anche collettivi. Oltre a questo, la figura di una persona di medicina – di qualunque cultura – sa che la sua identità è quella della natura e del cosmo. In questo spazio può operare la cura.

Michael Harner, antropologo fondatore del core-shamanism, afferma che gli sciamani credono che la mente sia usata per oltrepassare la mente stessa, per arrivare a ciò che è la non-mente, la psiche non personale, qualcosa cioè che va ben oltre la mente individuale.1 Il cosmo è visto come qualcosa di molto più grande della mente dell’individuo, in cui immergersi e che gli occhi di uno sciamano sono in grado di visionare, percepire e abbracciare. Il sognatore deve entrare in una mente più estesa, come la definirebbe lo scienziato Rupert Sheldrake, dove è il cosmo vivente a comunicare in tutte le sue forme: come l’anima dell’albero, di un sole, di una pianta, di un piccolo fungo, di un petalo di fiore, di un seme o dell’intero oceano. Secondo i recenti studi diffusi di Sheldrake; siamo tutti in relazione a una grande mente estesa2, dalla quale ci percepiamo separati, ma a cui siamo intimamente connessi, poiché pervade tutte ciò che esiste. (per maggiori informazioni ti invito a leggere il mio libro Dreamwalking, La Via del Sognatore).

E se perdessi la carta d’identità, che cosa accadrebbe? La carta come metafora del tuo ruolo sociale, della tua vita attuale, di ciò che reputi essere il tuo punto fermo nella tua esistenza?

L’esperienza di perdere l’identità

Anni fa, ero in vacanza e persi il portafoglio con dentro tutto: carta d’identità, denaro, bancomat – fortunatamente tutto fu ritrovato dopo circa una settimana – mi era caduto dalla tasca mentre giravo in bici. Nel frattempo però avevo già attivato tutti i processi volti al recupero necessario e alla ricreazione di nuovi documenti.

In quei giorni ho avuto modo di riflettere sul concetto di identità e sulla sua conseguente perdita e di quanto in un certo senso potesse essere una benedizione! Cosa voleva significare? Cosa implica la possibilità di ricrearsi in termini mito-poetici e di persona? E quella di perdere “chi si è”, il proprio “volto” immagine, ciò che si è costruito negli anni? Se osserviamo come una personalità si crea in un’intera vita, ci vuole una vera e propria collezione di esperienze con il mondo!
Ma allora, qual è il potenziale di questa possibilità? Senza per forza dover approcciare un cammino di contatto con la via dello “sciamanesimo”: come possiamo portare nella nostra vita questa metafora esistenziale?

Proviamo a vederlo da più prospettive.

Assagioli e la disidentificazione

Nella psicologia di Roberto Assagioli, psichiatra e teosofo, fondatore della psicosintesi, il cui contributo italiano ha dato una nobile spinta evolutiva e poetica alla saggezza psicologica, troviamo un processo psichico chiamato disidentificazione.

Nella struttura del pensiero assagioliano, la nostra psiche è vissuta attraverso il contatto con quelle che vengono chiamate sub-personalità, aspetti sotterranei della nostra personalità che creano il mosaico stesso del nostro essere. Ogni giorno ci identifichiamo con una o più di queste sub-personalità, che hanno lo scopo di farci agire – più o meno consapevolmente – nella vita di tutti i giorni.

Quando una di queste sub-personalità è particolarmente vigile e presente, e coopera in tutte le nostre relazioni come una presenza costante, potremmo essere “affetti” da forte identificazione. Questo accade quando portiamo lo stesso ruolo ovunque, in qualunque contesto.

Una buona medicina quando si vive questo fenomeno è lavorare proprio sul processo di disidentificazione: cercare di scardinare quel ruolo e tornare a essere presenza, in parole povere togliersi la maschera e tornare a essere un centro profondo, un sole che abbraccia tutte le nostre sotto-personalità, le nostre parti sotterranee, e le riconduce nel cuore. Considerarle così come pennelli, come colori con cui affrescare la nostra vita, piuttosto che come qualcosa in cui cristallizzarsi.

Perché se ci si comporta sempre nello stesso modo, potrebbe accadere che un giorno s’inciampi, si cada e ci si faccia male. L’importanza della disidentificazione quindi ci invita a non vivere sempre a stretto contatto con le solite credenze e attitudini. Che respiro!

Ulisse, il signor Nessuno

Nell’episodio dell’Odissea in cui Ulisse incontra Polifemo, egli gioca d’astuzia. Quando il ciclope gli chiede il suo nome, Ulisse risponde di chiamarsi Nessuno.

Questa sarà la garanzia del suo successo in questo capitolo della sua avventura. Quando Polifemo, infatti, urlerà di dolore a causa del palo piantato nel suo unico occhio proprio da Ulisse e i suoi seguaci; egli dirà: Nessuno mi ha fatto male! A quel punto i suoi fratelli lo derideranno e non andranno a soccorrerlo, perché di fatto non era stato nessuno. Sarà questo quindi lo stratagemma che permetterà a Ulisse e ai suoi alleati di scappare dalle grinfie del ciclope.

Imparare a essere nessuno, come ci insegna la saggezza greca, potrebbe essere molto utile. Se io non sono nessuno, sono inattaccabile. Se non sono identificato con nessun ruolo, in un certo senso divento invincibile, dimoro nella vulnerabilità; poiché non mi aggrappo a nessuna delle mie parti, nemmeno a quelle ferite, nemmeno a quelle che reputo vincitrici o di successo. (per maggiori approfondimenti su questo tema vi invito a guardare il video della sociologa Brené Brown sul potere della vulnerabilità)

Non mi aggrappo a nessuna aspettativa e imparo a vivere nella sorpresa. Inoltre forse apro strade che non avevo nemmeno considerato. La saggezza di Ulisse arriva dal contatto con il thymos, che, secondo il classicista E. Dodds, rappresentava proprio un’esperienza di connessione con il cuore, che gli eroi greci praticavano spesso quando cercavano consiglio. Il thymos è proprio la voce all’incirca al centro del nostro petto.

Essere nessuno significa probabilmente cercare un centro nel cuore e seguire ciò che, oltre ogni aspettativa, al di là dei canti delle sirene intonati delle parti di noi; è il desiderio autentico della nostra anima.

I am no one, Arya Stark

Anche il personaggio di Arya Stark, ne Il Trono di Spade, di George R. R. Martin, si trova a entrare in contatto con una sorta di pratica misterica, nel suo addestramento presso la Casa del Bianco e del Nero, tempio del dio dai mille volti. Lo scopo principe è quello di potere indossare le maschere-volto di chiunque, grazie all’acquisizione di poteri metamorfici; ma per raggiungere tutto questo deve rinunciare completamente alla sua propria identità. Solo quando sarà veramente nessuno, potrà indossare i volti del mondo.

Questo concetto è molto interessante: se impariamo a essere nessuno, potremmo entrare in un migliore contatto con le persone (ricordiamo che in una visione animista ogni essere è considerato persona, anche animali, piante, pietre, ecc) attorno a noi senza pregiudizi e aspettative, in primis; secondariamente per empatia potremmo vedere meglio attraverso gli occhi dell’altro in tutte le sue forme. Se rinunciamo ai ruoli in cui ci cristallizziamo; entriamo in un flusso dinamico e ci mettiamo maggiormente al servizio di qualcosa di più grande, partendo dallo spazio del nostro cuore.

Questo non significa annientare completamente il nostro ego. L’ego può esserci utile per creare confini con il mondo esterno. Ma riconoscere i ruoli che agiamo, onorarli e non vivere in simbiosi con essi in modo totalizzante può aiutarci ad apprendere nuove strade.

Castaneda e la follia controllata

Nelle opere di Carlos Castaneda, si parla di follia controllata nel momento in cui cerchiamo coscientemente di interpretare un ruolo che non avremmo mai considerato, quindi agire fuori da ogni nostro classico canone, come pratica di consapevolezza. Questo ci porta completamente fuori dalla nostra zona di comfort e può essere un’esperienza fortemente terapeutica.

Uscire dalla mente ordinaria, come farebbe il Matto dei Tarocchi, significa incamminarsi verso un nuovo ruolo, una nuova forma che non avevamo considerato. Se rimaniamo troppo cristallizzati nelle nostre convinzioni, i sistemi della nostra mente rimangono chiusi. Ma la neuroplasticità cerebrale ci permette di essere sempre aperti all’apprendimento. Questa è la predisposizione innata e genetica come esseri umani di modificare in modo naturale il collegamento e l’organizzazione dei circuiti delle reti neurali, allo scopo di evolvere e di cambiare in risposta alle nostre esperienze di vita. Questo mutamento avviene a qualunque età, in ogni istante in base ai nostri pensieri, a ciò che proviamo, a quali generi di reazioni abbiamo, a come elaboriamo i nostri ricordi e a quali sogni scegliamo di inseguire e realizzare. Le nuove connessioni sinaptiche ci permettono di imparare dalle nostre esperienze, mutando il nostro approccio e comportamento. Quindi non esistono delle vere e proprie strutture fisse!

Il cosmo secondo Sandra Ingerman

Sandra Ingerman, praticante sciamanica di Santa Fe, nel suo libro Medicina per la Terra, parla dell’esperienza del vuoto come di uno spazio di incredibile creazione: “Nel vuoto non c’era niente, eppure era pieno. Il vuoto era gravido di infinite possibilità; era lo spazio da cui tutto ciò che doveva nascere veniva creato. Il vuoto era il principio”. Inoltre aggiunge che nelle esperienze di guarigione miracolosa, l’elemento chiave è il passaggio da uno stato di coscienza egoico, dove ci si sente separati dal resto della vita, a uno di unità con il potere dell’universo e con il suo creatore.

L’esperienza del vuoto è quindi un’esperienza che colma di forza e di presenza. È uno spazio di incredibile forgia, da cui può esplodere la creazione. Se io imparo a essere vuoto, posso generare un nuovo me stesso, posso co-creare con tutte le risorse che possiedo per sognare una nuova struttura di me. E quindi, perché no, una nuova identità, restando sempre autentici, tuttavia vestiti con nuovi colori.

Il vuoto quindi è lo spazio gravido di possibilità da cui un sognatore può attingere per reincantare la propria vita.

Qual allora è la bellezza di questa possibilità? Rendere la nostra vita fresca, fluida, dinamica; permettere ai nostri ruoli e alle nostre maschere di respirare e quindi considerare la vita come una danza.

Allora, che le nostre strade siano aperte!

E così ci rimettiamo in cammino…
al prossimo viaggio…

Alberto Fragasso

1Cfr. Michael Harner e Gary Doore, “The Ancient Wisdom in Shamanic Cultures: An Interview with Michael Harner Conducted by Gary Doore”, in Shamanism: An Expanded View of Reality, Ia cura di Shirley Nicholson, Questo Books, Wheaton III. 1987, p.4.

2Rupert Sheldrake, La Mente Estesa, il senso di sentirsi osservati, e altri strani poteri inspiegati, Feltrinelli, 2018.